L'Episcopio (da Ovest)
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Alla ricerca di tradizioni (perdute ?).

Attingiamo, ancora una volta, da "il Seminario" (n. 4/2007) e riproponiamo questo articolo interessantissimo.

C'ERA UNA VOLTA LA CIVILTÀ CONTADINA:
LA FESTA DELL'UCCISIONE DEL MAIALE

La mattina del l4 gennaio [2007 ?], una domenica "primaverile", un po' ...

Squartamento del maiale. Angelo Petoia: il "sacerdote sacrificatore"

... ventosa, ho partecipato in compagnia di amici alla festa "rituale" dell'ammazzamento del maiale, nella campagna dei fratelli Petoia, in contrada Vullo, nel tenimento di Conza. Mi sono fatto invitare, era da più di mezzo secolo che non assistevo alla sequenza completa di un suinicidio. Dal momento, cioè, in cui la "vittima sacrificale" è presa dal porcile, con l'inganno di un pugno di ghiande (l'animale per un giorno è stato tenuto a digiuno, per impedirgli di riempire lu cularínë) e trascinata sul luogo del "sacrificio cruento" (nella circostanza, vi è stata trasportata con un carro agricolo), mentre l'aria è lacerata dai grugniti disperati, che arrivano fino al cielo. Al momento in cui l'animale vittima è immobilizzato su un tavolo da due o tre "energumeni” e scannato con un unico, infallibile, micidiale colpo di un coltellaccio lungo e ben affilato.
In quest'occasione, gli hanno infunato i piedi posteriori, fra i continui e violenti strappi dell'animale ricalcitrante, l'hanno tirato su cu lu parangulë (il "paranco”) e poi il "sacerdote sacrificatore” (Angelo) l'ha sgozzato, con il sangue che sgorgava rosso e copioso nell'apposito secchio.

Quando poi hanno "deposto" il maiale di nuovo sul tavolo, si è passati al momento del "rogo purificatore": gli hanno bruciacchiato col cannello a gas (ah, il progresso!) la cotenna setolosa, che hanno poi lavato con acqua bollente, strofinandola col sale per farla imbianchire, fino a che la pelle non ha assunto un bel colorito roseo. Hanno nel frattempo strappato all'animale pure gli unghioni, ne ha conservato uno, su uno scannetto rustico, e poi un altro, per lasciarli come “ricordo”, al bar, nelle tasche del cappotto di qualche amico (si usava, si usa), ma una carognetta di cagnolina per due volte me li ha fregati.

Infine, il maiale è di nuovo appeso alla ”pertica” - tramite lu gammiérë applicatogli alle zampe posteriori - per essere squartato e sbudellato. Seguendo una meticolosa procedura, il ”macellaio” prima ha reciso la testa della bestia (testa che, privata della pelle e della parte più grassa, servirà, fotta a pezzi, per il pranzo finale). Poi, con leggero taglio all'altezza delle cosce, ha estratto l'uossë dë lu purcarë e - via via tagliando - la vescica e lu ndriglië, la trippa con la zeppë e la milza, gli intestini, e quindi lu campanarë (polmoni, cuore e fegato) fino a lu cannaronë (esofago e trachea). Dopo gli ultimi gettiti d'acqua per pulirlo un po' del sangue, il maiale è stato spaccato in due parti e lasciato in un ambiente freddo, dove sarebbe rimasto qualche giorno per permettere alle carni di rassodarsi.

QUANDO ERA VIVA LA CIVILTÀ CONTADINA

Oggi, le occasioni per assistere a una tale "festa" non si danno (quasi) più. Bisogna appunto farsi "invitare" da qualcuno, da qualche parte, in qualche campagna. Il fatto è che nessuno (o quasi) fa più il "mestiere" del contadino. Nessuno più alleva in "proprio", e uccide maiali. Ma una volta non era cosi. Non era cosi quando era viva e vitale (almeno fino ai primi anni Sessanta del '900) quella che storici e sociologi chiamano la "civilta contadina". La cui fine il Poeta ha rappresentato simbolicamente nella "scomparsa delle lucciole". Allora, in una società rurale, allevare un maiale assumeva, nell'ambito dell'economia domestica, una importanza fondamentale. I maiali immolavano la loro opulenza al benessere delle famiglie. Di questo animale tanto "calunniato” effettivamente non si sprecava nulla (come del resto anche oggi).

Per questo nel nostro paese (come dappertutto, credo) si può dire che non vi era famiglia - contadina, operaia, artigiana, e perfino borghese - che non allevasse, o si facesse allevare, un maiale. Il porcellino veniva di solito comprato in uno delle tante fiere paesane (all'Annunziata, all'Incoronata, a San Vito ecc.) e cresciuto con "amorevole cura" dalle nostre brave massaie. Che prima lo facevano sanare, cioè lo facevano castrare dal norcino, ovvero lu sanapurciéllë. Per impedirgli di riprodursi e quindi per farlo più rapidamente ingrassare. A tal fine gli davano da mangiare anche più volte al giorno (si faceva insomma "a gara” a chi io facesse venire su più lardoso). Il cibo più ”prelibato” era la tumbratë, ii pastone che si otteneva mescolando la crusca (la caniglië) con l'acqua di cottura della pasta (la iottë) e qualche furnë d'urmë (”foglia d'olmo”), ma più spesso nei truogolo (lu (g)autë) vi mettevano spruscënë, mele di scarto, tutërë, patate di scarto, cerzë ("ghiande"), cucozzë ecc. ecc. Di tanto in tanto la padrona lo lavava (si sa i porci amano sguazzare nel lordume), concedeva al porcello qualche "ora d'aria” (come ai carcerati) soprattutto per permettergli di "fare i suoi bisogni” (sotto il cielo!), e giusto il tempo per poter pulire anche il porcile (la roddrë).

IL GIORNO DELLA FESTA AL PORCO

E cosi arrivava, per la famiglia, il giorno della "festa" al porco. Di solito nel periodo natalizio, meglio se la giornata era fredda. Si deve però ricordare che in qualche famiglia più bisognosa il maiale veniva venduto, magari la metà, era "sacrificato" a più impellenti esigenze economiche; si doveva fare il corredo per la figlia, comprare i pantaloni, far cucire le scarpe nuove ecc.

L'avvenimento si celebrava, come molti ricorderanno, con un banchetto finale in "onore" dell'animale ucciso, più o meno affollato di parenti e amici stretti. Nel quale non poteva mancare la tortiera (di patate) col fegato avvolto nella zeppë (”omento") del maiale appena ucciso. Il banchetto faceva parte del "rito", ma non si consumava in ogni famiglia. Era, ovviamente, anche un'occasione per stare insieme in allegria. Tra un boccone, un elogio alla "buona riuscita” del maiale, e un bicchiere di vino, si facevano un po' di chiacchiere, di pettegolezzi, ci si scambiava qualche informazione sui fatti accaduti, e sulle persone. Il pranzo poteva anche essere preceduto, la mattina, da una prima colazione a base di cucozzë fritta e peperoni sotto aceto, o di altri ingredienti.

Ricordo quando, nei primi anni del dopoguerra (ero un ragazzino), ammazzavano il maiale alla casa dei miei nonni materni, in via Mazzini. In piena strada. Non passavano macchine (ma, chi aveva la macchina?), vi passava qualche asino o mulo tirato per la cavezza, qualche cane, vi ”passeggiavano” i polli, liberi, impettiti, starnazzando e scacazzando, e le galline che scoccodavano liete per aver fatto l'uovo, e la vocchëlë col suo "esercito" di pulcini. La strada, il luogo del "sacrificio", insomma, era tutta ”nostra”. Qui veniva portato il maiale, dal vicino porcile (il localetto esiste ancora, sotto l'arco di via "Diramazione sotto Chiesa"), veniva sollevato di peso e rovesciato di lato su una tavola rustica, e lesto il macellaio gli affondava il coltello scannatoio nella gola (il macellaio di fiducia della nostra famiglia era zio Leone Gallucci, un parente di mia nonna Ruccia, che aveva talvolta come "assistente" Tonno Potuto). Subito dopo veniva versata sul maiale l'acqua bollente per lavarne il corpo, e rase le setole della cotenna (oppure prima si bruciavano le setole con ginestre e rami secchi: così la cotica, dicevano gli intenditori, era più saporita). Quindi la bestia era appesa ai ganci sotto il soffitto della casa, spaccata e sventrata.

IL MAIALE VIENE SFASCIATO

Parti del maiale

Dopo qualche giorno, si facevano li piezzë, il maiale veniva cioè squartato, tagliato in grossi pezzi, veniva ”sfasciato” (come si diceva anche). Il macellaio che tagliava (zi' Lionë) era circondato e aiutato dalle donne di cosa. Queste provvedevano soprattutto a tagliuzzare la carne delle parti più pregiate del porco, che mettevano nella tavaréddrë, aromatizzavano e lavoravano per farne gli insaccati (mi viene ricordato che se una donna era ”indisposta”, certo per un pregiudizio, non vi partecipava).

lo vi assistevo, per me era quello il momento di rimediare na frittëlècchië (di solito a commuoversi alle mie "preghiere" era zia Graziella Bozzone, mentre nonno Salvatore mi guardava un po' di traverso), che mettevo a cuocere sui carboni ardenti del camino con un pizzico di sale e poi mangiavo avidamente (sento ancora in bocca il sapore meraviglioso di quella carne, della carne di quei maiali ben pasciuti con cibi naturali).

Al maiale veniva tolto tutto il grasso; si tagliavano i quattro pezzi del lardo e le due vëntréšchë, uno dei salumi più golosi e gustosi, che si confezionavano per lo più nella forma distesa. Con le cosce si facevano li prësùttë con la spaila rë spaddruccë (i prosciutti di spalla). Però la carne delle due parti che componevano la spalla era utilizzata in molti casi per fare i salami, le soppressate (rë sëbbrëssatë) e le salsicce (rë sauchícchië), che poi erano appesi alla canna sistemata al soffitto della cucina e fatti essiccare, con l'aiuto del fuoco dei camino e dell'aria gelida della notte. Così come non sempre si confezionava il capicollo (lu capëcuoddrë) arrotolato e legato con lo spago.

Ma nell'occasione dello squartamento del maiale si poteva constatare come davvero di questo animale non si buttava via niente. Tutto era utilizzato. Le setole già erano state ”salvate” e messe da parte dal calzolaio amico o vicino di casa (Virgilio Cassese) per utilizzarle come punta di spago. Tutto (o quasi tutto) del maiale veniva tramutato in cibo, a seconda della qualità della carne. ll grasso veniva liquefatto per ottenere la nzognë (”sugna”), che si conservava nella vëssìchë gonfiata, dopo essere stata ripulita e seccata, oppure in vasetti di creta. Lo strutto era usato per preparare il sugo. Ciò che restava del grasso fuso costituiva rë frìttëlë, che si usavano (si usano) per preparare la saporitissima migliazzë con la farina di mais. Per fare il sugo si usava anche il lardo, che però veniva pure mangiato.

Con le carni meno pregiate del maiale si confezionavano rë nnoglië, gli involtini con la cotenna del maiale, e lu fëcatazzë, i salsicciotti fatti con pezzetti di polmone, di cuore ecc. Che servivano per preparare la saporitissima minestra di cicoria, che si mangiava (si mangia) con la ”migliazza” di farina di granturco. Anche i piedi, la lingua, le orecchie del maiale, che si spaccavano, si salavano e si conservavano appese a una pertica, servivano per preparare la minestra. Col sangue del maiale, dopo alcuni giorni si faceva (si la ancora) lu sangunaccië (il "sanguinaccio") che si conservava in una zuppiera o in una scodella, e mangiato un po' alla volta. Oppure insaccandolo nelle budella del maiale, dopo averle ben lavate. Queste si mettevano a bollire e in seguito mangiate, tagliate a díschetti più o meno spessi. Con l'acqua che restava si poteva fare anche la polenta di farina di granturco, che assumeva pertanto un colorito rossiccio. Col sanguinaccio si confezionava (si fa ancora oggi) anche la pizza, che viene mangiata a pezzetti.

”Sfasciato” il maiale, restava un ultimo “dovere”: il giro per le case dei parenti e degli amici più stretti a portare lu datë (il ”dato”), un dono di carni, per lo più una costina e un pezzo di fegato con la “zeppa”, che si usava ricambiare. Con tania "grazia di Dio”, con tanti impasti meravigliosi e aromi naturali, e salumi abbinati con verdure, c'era da sfamarsi per tutto l'anno (ma a quei tempi, non esistevano il colesterolo, i trigliceridi, la pressione alta?), ci venivano offerte anche le calorie per sfidare i lunghi e rigidi inverni di una volta. Eppure il maiale (come ricorda il grande scrittore E. A. Poe ) è l'animale che ha ricevuto più ingiustizie al mondo.

Un “generoso” animale che continua ad essere considerato il simbolo di comportamenti non certo ”virtuosi”: della sporcizia, della ingordigia, della lussuria. Ma a tavola, quando ne mangiamo le carni comunque confezionate, è evidente che noi gli rendiamo ogni volta ampiamente giustizia!

Pasquale Lamanna


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(Rosario Cignarella)
Prima pubblicazione: 19 febbraio 1999

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