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Categoria: il seminario Visite: 1896

Tragedia nella cava di pietre della "Sa' la serpe"

La seconda guerra mondiale era appena terminata. Ovunque segni di morte e distruzione. L’opera di ricostruzione era soltanto agli inizi. C’era nell’aria tanta voglia di riscatto e di rinascita, anche se ...

Lapide di Silvio Restaino
Manibus date lilia plenis (Virgilio, Eneide, VI, 883)

... gli italiani si ritrovavano più poveri e affamati di prima.

“Se potessi avere / mille lire al mese / senza esagerare / sarei certo di trovare / tutta la felicità. / Un modesto impiego / io non ho pretese / voglio lavorare per poter al fine trovare / tutta la tranquillità”. Una canzone, celebre in quegli anni, che serviva ad alimentare il sogno di una nazione intera.

Tempi durissimi per tutti, specie per le famiglie numerose, la cui sopravvivenza era assicurata in parte dalla tessera, che dava diritto a ricevere la razione giornaliera di cibo per persona. Era molto diffuso, però, il mercato nero; per gli speculatori di generi alimentari e le famiglie dedite al contrabbando di sigarette erano previste gravi sanzioni, compreso il carcere.

Per fronteggiare la penuria di beni di prima necessità i santandreani si recavano in comitiva, a piedi, nella vicina Puglia per l’approvvigionamento e rientravano di notte per evitare posti di blocco. Non mancava, a volte, il controllo nelle case con il rischio di essere privati di ogni ben di Dio, frutto della vendita di oggetti di valore, biancheria, mobili...

Nonostante tutto, S. Andrea era all’epoca già un paese operoso. Vantava l’esistenza di alcuni laboratori, in cui valenti scalpellini realizzavano vere opere d’arte e le cui tracce, ancora oggi, sono presenti nei monumenti, nelle cappelle funerarie, negli altari o facciate delle chiese parrocchiali dell’Irpinia e della Basilicata.

Un bel gruppo di scalpellini "a la sa' la serpe"

In questa fase del primo dopoguerra, sia per necessità che per passione, vi fu una fioritura di artigiani della pietra. Il mestiere veniva tramandato di padre in figlio. Era l’unica risorsa economica anche per un giovane che intendeva mettere su famiglia. Non vi erano altre prospettive. Il flusso migratorio verso il Venezuela, l’Australia o l’Europa ebbe inizio solo dopo il 1950.

In quegli anni la casa divenne il sogno degli italiani. A S. Andrea poche famiglie realizzarono subito questo sogno, le altre a distanza di anni con le rimesse degli emigrati, avendo nel contempo la possibilità di avviare agli studi i loro figli. La domanda della manodopera locale veniva accolta, allora, come la manna dal cielo. Senza lungaggini burocratiche, con un semplice progettino e l’autorizzazione del Comune, era possibile costruire la propria abitazione.La categoria degli scalpellini era organizzata in gruppi di circa 10 persone ciascuna con un proprio responsabile che, secondo le necessità, provvedeva a chiedere in fitto una delle cave di pietra, che si trovano a monte dell’abitato di S. Andrea, nel territorio di Pescopagano, in località “Serra la Serpa”. A differenza degli operatori del settore, che utilizzano oggi mezzi meccanici moderni e potenti per l’estrazione della materia prima, nel passato tutto avveniva manualmente. Gli arnesi più comuni per l’estrazione dei blocchi di pietra dalle viscere della collina erano: la carrucola, il piccone, le funi, le stanghe di legno, la mazza (pesante martello), le scaglie di rame, la carica di esplosivo. Successivamente la lavorazione della pietra avveniva all’aperto, sul pianale stesso della cava, con scalpello, “mazzola”, punteruolo, squadro, metro.

In questo triste scenario s’inserisce la storia della famiglia Restaino, composta dal capo famiglia Nicola, scalpellino, dalla moglie Filomena, casalinga, da sei maschi (Arturo, Emilio, Attilio, Raffaele,Michele e Silvio) e tre femmine (Ernesta, Maria, Iolanda). Una famiglia numerosa e povera, come tante, ma onesta e laboriosa. Tutti i figli maschi avevano seguito le orme paterne nella lavorazione del marmo e della pietra.

Era il 20 maggio 1950.

Quel mattino, il giovane Silvio di appena ventiquattro anni, ultimo dei fratelli Restaino, non aveva molta voglia di andare al lavoro. La madre Filomena lo tirò, letteralmente, fuori dal letto e lo costrinse a seguire il padre e i fratelli. Il committente dei lavori, in quel momento, era il dott. Pasquale Abbruzzese, che stava completando la sua nuova abitazione con la scalinata interna in pietra. Fu un mattino diverso dagli altri. anche se l’esperienza e la prudenza degli anziani diffondevano fiducia all’intorno, il pericolo era sempre dietro l’angolo. Alle prime ore del giorno, infatti, mentre gli operai erano tutti intenti a lavorare, improvvisamente un masso venne giù e schiacciò il corpo del povero Silvio. Fu soccorso immediatamente e trasportato su una barella di fortuna dai fratelli e amici, attraverso i campi, dal medico Abbruzzese che dovette costatarne la morte. Dal primo momento non è stata mai chiara la dinamica dell’incidente.

Fu una tragedia per la famiglia, in particolare per la mamma Filomena, distrutta dal rimorso e dal dolore per la perdita del suo caro figlio.

La stessa comunità santandreana rimase profondamente sconvolta, compresi noi ragazzi, pur se distratti e spensierati per l’età. La partecipazione al lutto fu corale. Per circa sessanta anni un cippo funerario in pietra locale, posto sul tumulo di terra della sepoltura dello sventurato Silvio, ha ravvivato costantemente il ricordo di quel tragico evento, richiamando perfino l’attenzione delle nuove generazioni o dell’ignaro visitatore. Oggi, purtroppo, quel cippo si trova sballottato di qua e di là. Eppure è la voce muta, ma vera, della storia della nostra comunità. Non solo, esso è l’emblema di una generazione di artigiani, che ha dato lustro al nostro paese e ha testimoniato la propria laboriosità anche con il sacrificio di una giovane vittima. Perciò, a parer mio, quel cippo merita maggiore attenzione. Dalle colonne di questo periodico rivolgo un rispettoso invito agli organi preposti al riassetto del nostro cimitero, all’associazione di categoria e alla nuova Pro Loco e di provvedere, nei limiti del possibile, a una sua collocazione stabile e dignitosa tra le altre tombe, che popolano un luogo a tutti tanto caro.

don Donato