L'Episcopio (da Ovest)
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In occasione della ricorrenza del 4 novembre, Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate, riportiamo in primo piano questi articoli tratti dai quattro numeri, qui raggruppati, de "il Seminario" 2003 (anno VII) perché sono da ritenere particolarmente significativi per la nostra comunità.

UN TRAGICO GIORNO: 23 SETTEMBRE 1943

Sessant’anni. Sono già passati sessant’anni dai bombardamenti del Settembre 1943, in cui ci furono molte vittime a Sant’Andrea. Eppure ...(continua ...)

... il ricordo nelle menti di chi ha vissuto quei drammatici eventi o di chi ha perso un familiare è ancora lucido. Una lapide in Piazza dei Martiri fu posta a ricordo dieci anni dopo. Ogni giorno ci passiamo sotto: per noi fa parte del solito “paesaggio urbano” e magari quei nomi ci sembrano insignificanti. Sono i nomi dei martiri della Grande Guerra (1939-1945).
I mesi più significativi per Sant’Andrea sono stati quelli dell’Estate del 1943, dal 26 Luglio al 23 Settembre. A livello nazionale, in quest’arco di tempo, succedono diversi eventi importanti: Roma viene bombardata (19 Luglio), cade il regime fascista e Mussolini viene arrestato, Badoglio forma un nuovo governo (25 Luglio), l’Italia pubblica il suo armistizio (8 Settembre), Mussolini, liberato, forma la Repubblica Sociale Italiana (12 Settembre).
A livello locale il contesto storico, in cui si inseriscono i bombardamenti su Sant’Andrea di Conza, è quello della ritirata delle truppe tedesche verso Roma, dopo lo sbarco degli americani in Sicilia il 10 Luglio 1943 e, soprattutto, a Salerno nel Settembre dello stesso anno. In quest’ultimo sbarco, gli Alleati, protetti dall’aviazione angloamericana, riescono ad impadronirsi dei colli intorno a Salerno e a raggiungere il fiume Sele e le nostre terre.
Sui libri di storia leggiamo i grandi eventi, le grandi battaglie, i grandi nomi e i grandi armistizi. Ma, spesso, in quei tempi davvero duri si sono combattute anche tante piccole guerre quotidiane, personali o familiari, ugualmente importanti, che riguardano la sopravvivenza.
A sessant’anni dai bombardamenti su S. Andrea, la Redazione de “il Seminario” vuole commemorare tali funesti eventi con la pubblicazione di storie di vita quotidiana, accadute durante la guerra, tratte dai ricordi e dai commoventi, talvolta tristi, racconti di persone anziane, che è bene recuperare e tramandare alle future generazioni.
In tutto l’anno 2003, perciò, seguiremo questo filone, attingendo costantemente ai diretti protagonisti di quei difficili momenti. In questo numero, invece, oltre a riportare gli avvenimenti importanti e i bombardamenti, racconteremo la realtà santandreana dal punto di vista sociale, economico e politico, nonché i disagi affrontati da tutte le nostre famiglie nel periodo precedente quel tragico 23 settembre.

ANNI DIFFICILI

Il periodo più critico per il nostro paese è stato sicuramente quello che ha preceduto i bombardamenti del 1943. I santandreani erano per lo più artigiani e contadini. Solo dal ‘35 in poi sono comparsi i primi professori, ingegneri e ragionieri. In quel periodo, dominato dal fascismo, non c’era né lavoro, né cibo. “Durante la guerra i tanti uomini, che non lavoravano, passavano le loro giornate seduti su una grande scalinata, che si trovava in piazza Umberto I; gli agricoltori raccoglievano il grano e lo portavano a “l’ammassa” (luogo di raccolta di grano, che poi veniva mandato alla provincia); talvolta i fascisti andavano nei campi a vedere quanto ne era stato raccolto. Noi che eravamo artigiani prendevamo un po’ di grano e andavamo a macinarlo di nascosto ai mulino. Nascondevamo la farina nelle casse, sotto la biancheria e la prendevamo un po’ alla volta. Ci era permesso di andare a com­prare il pane soltanto con la tessera”. Infatti erano diversi i posti del paese in cui si comprava il pane con la tessera, che era un documento dato in dotazione alle famiglie dal regime e che dava diritto a un “tot” di pane a persona. “Quando l’Italia entrò in guerra, Mussolini ci tolse tutto l’oro e il rame. Gli uomini dai diciassette ai quarant’anni partivano per andare a combattere lasciando donne e bambini soli. In compenso c’era una paga mensile del Governo di 250 lire. Inoltre io, nonostante all’età di venti anni fossi incinta, lavoravo per guadagnare 12 lire alla settimana.” Il paese era completamente sotto il controllo fascista. “Fascisti erano il podestà, l’esattore, come tanti altri santandreani. Alcuni non ci permettevano neanche di parlare e giravano per il paese con i man­ganelli. A Sant’Andrea c’era addirittura il federale”. Il federale era un alto graduato fascista.

Sotto l’aspetto abitativo la situazione non era per niente facile. Alcuni santandreani erano proprietari e abitavano in case dignitose, mentre la maggior parte della popolazione viveva in case malsane, in sottani con pavimento in terra battuta, perlopiù umidi e maleodoranti. Molti sottani erano composti da due vani adibiti a cucina e stanza da letto, altri solo da un vano un po’ più grande, dove si svolgeva la vita quotidiana con enormi disagi per tutta la famiglia, quasi sempre numerosa, con una media di 5-6 figli; in alcuni casi facevano parte del nucleo familiare anche i nonni. Perciò, possiamo immaginare come genitori e figli, oltre a preparare e a consumare i pasti, erano costretti a dormire nello stesso basso. Inoltre ad accentuare maggiormente e condizioni pietose della vita familiare contribuivano la scarsezza di mezzi economici e la mancanza di igiene, con grave pregiudizio soprattutto per la salute dei piccoli. Nonostante tutto, però, le famiglie erano serene e armoniose; c’era grande rispetto reciproci non solo all’interno del nucleo familiare, ma anche tra le famiglie di uno stesso rione, tanto che nei momenti di bisogno c’era sempre piena intesa e disponibilità tra le persone, come pure una forma di scambio nei lavori dei campi. Comunque, queste situazioni appena descritte si sono protratte anche dopo la guerra, fino agli anni ‘60, anni del boom economico.

Iannella Alessandro (Liccecce) riceve, come "Balilla" il distintivo da Mussolini a Piazza Libertà - Avellino

Se tutto questo periodo fu caratterizzato dall’ordine e dalla disciplina imposti dal regime fascista, dobbiamo affermare che soprattutto il mondo scolastico risentì di tale impostazione di vita. Infatti, gli alunni erano suddivisi in varie categorie: i bambini dalla I alla III elementare erano chiamati “figli della lupa”; quelli della IV e della V elementare erano detti “balilla”; fino ai 18 anni si chiamavano “avanguardisti”; infine c’erano i “giovani fascisti”, che venivano iscritti alla milizia. Le ragazze, invece, erano denominate “le piccole italiane”. La caratteristica divisa maschile aveva i pantaloncini grigi e la maglia nera con una “M” sul petto. Quella femminile aveva la gonna blu pieghettata e la camicia bianca. Si tenevano spesso manifestazioni e parate rigorosa­mente in divisa e si cantavano sempre canzoni, alcune delle quali dedicate al Duce. “Giovinezza... Giovinezza, primavera di bellezza... per la gioia e l’ebbrezza...”, “Figli della lupa, vedete qui schierati... anch’essi bei soldati sapranno divenir...”, sono alcune parole delle canzoni cantate durante le sfilate.

Il primo contatto di Sant’Andrea con il mondo esterno avvenne nella calda giornata di San Vito, precisamente il 26 Luglio 1943. “Il paese era deserto. Sentimmo tutti un forte rumore, sconosciuto, nel cielo: era un aereo che improvvisamente lasciò cade­re qualcosa... era un paracadutista americano. Il paese si rianimò e seguì il paracadutista scendere dal cielo, cercando di capire dove sarebbe atterrato... quando l’americano e i santandreani si trovarono faccia a faccia, il primo ebbe la peggio, perché fu malmenato prima dalla gente e poi dai fascisti, fino a quando i carabinieri lo portarono in carrozza a Sant’Angelo...” Ai primi del mese di Agosto comparvero i primi tedeschi in paese. “Scendevano da Pescopagano, venivano da Potenza, dal Sud o chissà da dove!” I tedeschi in fuga si stabilirono nella zona del monumento, che a quel tempo era senza case. La gente, già povera e terrorizzata, riuscì a soddisfare le loro richieste: pane, salame,... L’8 settembre ci furono i primi bombardamenti. “Di notte per avvistarsi gli unì gli altri venivano sparati dei razzi, che illuminava­no a giorno il paese, e poi cadevano bombe. Non appena sentivamo il rumore minaccioso degli aerei e la luce dei razzi, subito scappavamo per i canneti. I più grandi ci ordinavano di rannicchiarci sotto le siepi e tra le canne… se facevamo in tempo, correvamo fino alla zona del cal­vario, dove c’erano le mete (cumuli di paglia posti secondo regole precise)”. Al monumento i tedeschi avevano montato un potente faro. E le bombe che cadevano erano causate dalla presenza di quel faro e quindi dei tedeschi. “La notte del 12 Settembre Zì Franciscö (Francesco Giorgio) dormiva a lato della moglie; dato che quella notte bombardarono nei pressi del monumento, una scheggia impazzita attraversò la finestra della sua abitazione e, tra la polvere, la confusione generale e le finestre rotte, silenziosamente gli tagliò il collo. Il giorno seguente. i santandreani che erano stati in guerra capirono che quel pericoloso faro andava subito tolto. Co­raggiosamente smontarono il faro e lo por­tarono verso il cimitero, unendosi al corteo funebre di Zì Franciscö.
Quando i tedeschi, scendendo da Pescopagano, si accorsero della mancanza del faro, cominciarono ad urlare sulle persone e a mitragliare.
Mostrata la bara e i segni del lutto, spiegata la situazione da qualcuno che sapeva parlare tedesco perché aveva lavorato in Germania, il pericolo fu scampato!”.
Il 15 Settembre passò un’altra colonna di tedeschi per il paese. “Quel giorno sono morte quattro o cinque militari, che si erano attardati per la via dell’Incoronata: sicuramente volevano razziare qualcosa. Vicino al monumento, ad esempio, c’era un locale con olio e vino, un giorno i tedeschi lo sfondarono e si presero tutto. Le bombe che cadevano per le strade del paese provocavano spostamenti d’aria che rompevano le finestre. Le vie erano piene di vetri rotti, le porte spalancate nel tentativo di scappare della gente impaurita, le case sac­cheggiate dai tedeschi affamati”.

Ma il conflitto non accennava a finire: Sant’Andrea continuava ad essere teatro di guerra.

QUEL FUNESTO 23 SETTEMBRE 1943

La guerra non aveva ancora inferto al nostro paese il suo col­po più crudele.

Durante i bombardamenti anteriori al 23 settembre, molta gente di Sant’Andrea, terrorizzata, si era rifugiata all’interno del Seminario, di cui Mons. Attilio Mauriello era rettore. Si era sistemata al piano terra. ”Eravamo nel corridoio, senza letti, né brande. Dormivamo stesi a terra, talvolta su qualche coperta. Ci davano da mangiare uva e fichi. Ce li portava qualcuno che era andato in campagna, in quanto nessuno aveva il coraggio di scendere in paese, tra i vicoli, per raggiungere un forno e fare il pane”. Si dice che se una bomba avesse colpito il Seminario, buona parte della popolazione santandreana si sarebbe “estinta”, tanta era la gente che si era raccolta in quel luogo, evidentemente considerato sicuro. Sul tetto del Seminario, inoltre, fu dipinta una croce, per indicare agli aerei che quello era un luogo sacro da non bombardare. Forse per questo motivo, forse solo per una fortuita coincidenza, il Seminario non fu bombardato.

Vittime dei bombardamenti aerei del settembre 1943

E intanto arrivò il 23 Settembre 1943. Era una giornata di guerra come tutte le altre. I tedeschi giravano ancora per il paese, ma ora da fuggiaschi alla ricerca di cibo. Qualcuno di loro arrivò nei pressi del Seminario, dal quale la gente, impaurita perla loro presenza, cominciò a correre giù per i vicoli. “Per le scale della Chiesa Madre e più precisamente in via Sotto Chiesa, sulle scale della casa della famiglia Iarussi, intanto, si era riunita, come tutti i pomeriggi la gente del vicolo e non solo. Si parlava della guerra; c’erano i vecchietti del vicinato, ma anche giovani e bambini mamme e figli. Non ricordo bene l’ora, ma mi sembra fosse stata quasi l’ora del tramonto. All’improvviso una voce si sparge di bocca in bocca: il ponte era stato minato. Mio nonno, non appena apprese ciò, si scagliò contro la presenza degli americani nel nostro paese, chie­dendosi cosa volessero dopo che tanti emigrati avessero lavorato e dato la vita per loro. Non so perché avesse questa visione, dato che gli americani ci stavano portando un po’ di libertà. Mentre si parlava di questa notizia – in tempo di guerra qualsiasi voce arrivasse diventava oggetto di discussione per qualche giorno inaspettatamente sfrecciò un aereo nel cielo”. Qualcuno ha visto distintamente sganciare più di una bomba. Infatti alcune caddero per la via della Casetta, un’altra in Via Incoronata, dove attualmente vi sono le case popolari. Molti ricordano l’enorme cratere lasciato dall’ordigno; in Via Incoronata quel giorno per lo spostamento d’aria morirono più persone: Schettino Maria Donata di Antonio (15 anni), Rus­soniello Maria Antonia di Pietro (10 anni) e Sossi Frida di Andrea (33 anni). Altre bombe rimasero inesplose; tra queste forse figura anche l’ordigno ritrovato a Pescopagano qualche anno fa. Ma la bomba che fece più vittime – e per la quale si celebra il sessantennio – cadde proprio su casa Iarussi(1), sventrata nella parte interna. “Mia madre, che si precipitò subito dentro, ricorda una grande fiammata, mista ad un tremendo vortice di aria, che faceva cadere calcinacci, pietre e mura. Vestiti e altri oggetti della casa furono scaraventati lontani, ritrovati lungo tutte le scale della Chiesa. In poco tempo tutta la casa fu ridotta ad un rudere. Da sotto le pietre si sentivano i lamenti strazianti delle persone che chiedevano di essere aiutate. I lavori di scavo cominciarono subito e i più fortunati riuscirono ad essere salvati prima dell’arrivo della notte”. Tra questi vi era Maria, che aveva in braccio sotto le pietre anche il figlio di quattro mesi, Luigi e Maria Pompea Cignarella. “Un fatto cu­rioso è che alcuni si salvarono perché rimasero imprigionati sotto “na pila” (grossa vasca di pietra), che si capovolse, nell’esplosione, su un materasso caduto dal piano superiore”. Questi erano Michele e Guido Iarussi e Luigi Giorgio. Intanto le tenebre stavano avvolgendo tutte le case ed i vicoli, mentre i lamenti si facevano sempre meno numerosi e più deboli... “Don Alfredo, che all’epoca era un personaggio importante in paese, non diede il permesso di continuare gli scavi durante la notte, forse perché per farlo si aveva bisogno almeno di una candela che facesse luce e aveva paura di violare il coprifuoco”, secondo il quale in tempo di guerra durante la notte nessuna luce – né pubblica, né di abitazione – doveva rimanere accesa, per impedire agli aerei di individuare il centro abitato. “Durante la notte e nelle notti seguenti si verificarono anche atti di sciacallaggio. Mia zia aveva individuato il posto in cui c’era la sorella Erminia con i figli e rimase li tutta la notte. Lei chiedeva: - Alfonso, dov’è mamma? –, e il figlio: – Zia, non ti preoccupare, è vicino a noi –, – Ma che sta facendo, perché non risponde?! – e loro: – Sta dormendo! – Era già morta.“ AI mattino seguente le speranze di trovare qualcuno vivo si erano notevolmente ridotte. “La maggior parte delle persone fu estratta senza vita. I cadaveri venivano sistemati sul sagrato della Chiesa Madre, mentre i feriti venivano portati al Seminario, dove non sempre sopravvivevano”. All’epoca l’evento non suscitò molto scalpore: “Le famiglie colpite non ebbero alcun sostegno morale dall’amministrazione comunale di quel tempo; i nostri morti furono quasi tutti seppelliti in una cassa comune, senza nem­meno una bara!”. Della famiglia Iarussi trovarono la morte, quel giorno, Iarussi Michele di Pasquale (72 anni), assieme al nipote Iarussi Vittorio di Salvatore (8 anni); la si­gnora Mauriello Elvira di Matteo (47 anni) ed il figlio Iarussi Giuseppe di Antonio (18 anni), ferito, che morì al Seminario; Giorgio Erminia di Salvatore (44 anni), i cui figli furo­no invece estratti vivi dalle macerie. “Mia madre ha vissuto con questo brutto ricordo e nello stesso tempo l’ha fatto sempre rivivere a noi che le stavamo accanto, specialmente nell’ultimo periodo della sua vita: ogni volta che passava un aereo, si copriva le orecchie e poi cominciava a sistemare un fazzoletto, come se stesse piegando i vestitini del figlio morto, che abbiamo ancora adesso intatti”. In quella stessa circostanza morirono Cerasale Grazia di Salvatore (18 anni), che stava tornando con la cesta in testa da “lu cumendo” (il convento), più precisamente dal lavatoio e che, per disgrazia, si era infilata nel portone dei Iarussi, impaurita dal rombo dell’aereo; Cignarella Angiolina (11 anni) col padre Cignarella Salvatore Emidio di Giuseppe (40 anni); la signora Mauriello Maria Donata di Matteo (42 anni), assieme ai suoi quattro figli Andrea (16 anni), Matteo (11 anni), Antonietta (5 anni) e Gina (3 anni, la vittima più piccola) di Piccininno Michele. Sotto i bombardamenti trovarono la morte anche Cignarella Donatina di Pasquale (12 anni), D’Angola Michelangelo di Luigi (30 anni), D’Angola Vincenzo di Emidio (47 anni), Giorgio Francesco di Pasquale (78 anni), Gottardi Maria Gerarda di Erme­negildo (28 anni), Malanga Michele di Pasquale (70 anni) e Savone Elisabetta di Vito (71 anni).

Il Sac. Vincenzo Giorgio con i fratelli Grazia e Michele

Da questa tragedia uscì ferito anche un sacerdote, Giorgio Vincenzo di Luigi di 79 anni, che fu messo su un asino e portato verso l’ospedale di Pescopagano, per ricevere cure, dai suoi fratelli Grazia (51 anni) e Michele (34 anni). Per la via, però, li sorprese una mina, che cancellò i loro corpi. Si racconta che tutto ciò che ne rimase fu un brandello della veste del prete, che rimase per diversi anni appesa al ramo di un albero(2).

I santandreani, a questo punto, speravano solamente che il ponte cadesse al più presto: in questo modo la popolazione sarebbe stata salva.

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

Il ponte sull'Arsa in costruzione

Un ultimo tonfo nella tarda notte tra il 23 e il 24 set­tembre. Il ponte dell’Arso era caduto. La popolazione era salva! Almeno, questa è la versione più accreditata. In momenti così convulsi, come lo sono stati i bombardamenti del 1943, è difficile rimanere lucidi e capire esattamente cosa accade e cosa sta per accadere, ed è ancora più difficile ricordare a distanza di sessant’anni. Questo vale anche per il ponte, “un bel ponte fatto costruire da Mussolini, di ferro battuto, con lo stemma del fascio", sulla cui caduta ci sono versioni discordanti. C’è chi dice che sia caduto prima del 23 settembre, chi afferma che sia stato fatto saltare diverse settimane dopo, chi addirittura sostiene che, tornato dalla guerra, il ponte era ancora lì. I tedeschi capitolavano, e durante la fuga cercavano di tagliare la strada agli americani, distruggendo i luoghi dove questi poteva­no passare nell’inseguimento. Così Sant’Andrea non era più un passaggio obbligatorio e i santandreani poterono respirare un po’ di agognata, relativa tranquillità. Intanto in paese durante la notte si continuava a scavare, nell’affannato tentativo di trovare qualche sopravvissuto. Qualcuno rimase ancora per un po’ al Se­minario: “erano perlopiù giovani, perché molti vecchietti si rifiutavano di lasciare la propria casa. Lì c’erano i feriti, gli ammalati di tisi…”. Si andava a prendere da mangiare a casa e si prendevano uva e fichi dall’orto del Seminario oppure, più tardi, le scatolette di carne portate dai soldati americani. La speranza per una fine vicina della guerra, lo sconforto per le sofferenze passate e il senso di solidarietà e di unione, che teneva unita la popolazione, traspaiono nelle parole pronunciate da Mons. Attilio Mauriello durante l’omelia del Natale del 1943: “In questo anno, ugualmente anno di guerra, che continua a disseminare strage, rovina e morte; anno in cui, con uguale ferocia, il sangue umano scorre a torrenti, tingendo di rosso le rocce dei nostri monti, le contrade delle nostre città, colorando le onde dei nostri mari; anno in cui la nostra Italia, diventata teatro di questa immane lotta, vede crollare opere grandiose e superbe, vede i suoi figli con viso scarno e pallido gementi e doloranti in un mare di strazi, torna sempre cara la festa del Natale. […] L’egoismo, l’ambizione, la brama del dominio, lo spirito di vendetta presero possesso del cuore dell’uomo e lo allontanarono da Dio, da Cristo Redentore; da tale separazione ne derivò un turbine spaventoso che oggi avvolge e travolge l’umanità in un fiume di sangue. […] Perciò la società è troppo lontana dall’unione che ci impone il Natale. […] E l’individuo crea la società con le sue passioni nazionalistiche che sboccano nella guerra, il grande peccato dei popoli, annientatrice dell’unione, universale. […] Il flagello della guerra ci colpisce, Ci affligge e ci tormenta … Agli inizi del ‘44 gli americani avevano sistemato delle tende. Portavano con sé del­le “donnette”. Avevano il compito di soddisfare i desideri sessuali dei soldati. “Per festeggiare la liberazione, si ballava nelle case; gli americani avevano portato anche alcuni grammofoni …” Gli americani si inserirono nella vita santan­dreana: alcuni di loro acquistarono dei terreni, come ad esempio alcuni nella zona di Piazza Pallante. Si racconta che gli alleati volevano occupare il Seminario, ma dovettero chiedere il permesso al Vescovo. “Durante il viaggio per Sant’Angelo, la camionetta sbandò e andò a scontrarsi contro un albero. Per il paese si mormo­rava che Don Attilio avesse perso la vita…"

Panoramica del ponte sull'Arsa in costruzione e degli operai al lavoro

Durante la guerra chi ne aveva la possibilità si rifugiava nelle masserie. Durante i bombardamenti ci si rifugiava nelle siepi. Molti continuarono ad abitare in campagna anche dopo la caduta del ponte. In ciò si possono rintracciare le cause di alcuni casi di analfabetismo. “Mio padre, per proteggermi, mi portò in campagna e abbandonai la scuola. Poi non vi tornai più…”. Molti ricordano che dopo gli ame­ricani,”… a Sant’Andrea sono venuti a riposo i francesi per circa un mese, nei mesi di Marzo Aprile ‘44. Erano perlopiù marocchini. Noi donne per guadagnare qualcosa lavavamo loro la biancheria; facevano il segno del cerchio e capivamo che volevano del pane; se volevano mangiare cucinavamo una frittata e ci pagavano cinque lire …”. Coloro che all’epoca erano giovinette, ricordano che i loro genitori dovevano proteggerle dalle molestie dei soldati stranieri. C’era chi ve­niva nascosta nei granai, chi tra legna e carboni, chi ancora nei pagliai. Si davano feste sullo spianale del Seminario. Sbocciarono parecchi amori giovanili tra soldati e civili; ci furono, però, anche episodi meno piacevoli.

Sempre in tema di festeggiamenti per la liberazione, “a Conza quell’anno (era il ‘44), in occasione delle maggiaiole, si organizzò una grande processione…”.

La guerra, finalmente, finì. Tornarono i soldati santandreani, spesso malati di malaria. “I soldati portarono anche i pidocchi.”.

Parecchi non tornarono affatto. Dopo la guerra, l’Italia dovette rimarginare le sue ferite, cercare di rialzarsi dalle rovine. Anche Sant’Andrea, teatro di guerra, aveva bisogno di reagire, ma spesso la miseria, la sofferenza e le mille difficoltà di ogni giorno, non permisero un pieno ritorno alla normalità. Ciò favorì il fenomeno dell’emigrazione. “Dopo la guerra molti uomini partirono in cerca di fortuna in Venezuela. Seicento uomini. In un giorno ne partirono diciannove, tra cui mio marito…”.

Ma se i santandreani hanno custodito e custodiranno per sempre i ricordi delle immani tragedie di paese, tornati dal fronte, ora anziani, avranno mille storie da raccontare…

STORIE DAL FRONTE

Vallario Vito, Di Lorenzo Carlo, Iannella Alessandro (da sinistra a destra) al fronte greco

Per comprendere ciò che siamo e perché siamo, non basta capire gli eventi che sconvolsero il nostro paese e che portarono alle stragi del settembre 1943, ma si deve ricordare, e degnamente onora­re, tutti quei santandreani che partirono per il fronte negli anni della Seconda Guerra Mondia­le. Tante cose sono cambiate in sessant’anni e ci sembra che certe realtà possano esistere solo negli emozionanti raccon­ti dei vecchietti, magari vicino al focolare. Ma la guerra e i suoi effetti sono ancora vivi tra di noi e, con il clima internazionale odierno, niente appare tanto opportuno ed attuale.

Dopo sessant’anni, le cica­trici non sono ancora comple­tamente sanate: “l’orrore del fronte sparisce quando gli vol­tiamo le spalle. [...] Ma dimen­ticare no”, perché “tutto ciò che si affonda in noi, come un muc­chio di pietrame, finché dura la guerra, si ridesterà un giorno a guerra finita. […] I giorni, le set­timane, gli anni trascorsi in trin­cea ritorneranno…”

Sant'Andrea ha dato il suo mesto contributo alla guerra con la vita di molti soldati. Cer­cheremo di fornire, nelle pos­sibilità, i nomi e alcune notizie sulle loro esperienze.

Ognuno ha una storia da raccontare, ognuno ha soffer­to e vissuto avventure al limite dell’inverosimile. Storie da film. Alcuni di loro hanno perso la vita in battaglia. Cotrufo Vincenzo si trovava sul fronte rus­so, a Popovka, dove fu cattu­rato il 21/12/42 e internato nel campo n. 56 nella regione di Tambov, dove morì il 31/3/43. Giorgio Antonio, dopo aver partecipato alla guerra Italo-Abissina del 1935/36, partì alla volta di Bojana, Albania, con il suo battaglione capitanato dal Maggiore Tobia Regazzoni, e fu destinato nel Montenegro. La sua storia è particolarmente commovente, in quanto sacrificò la sua vita per i compagni. Prese il posto del soldato, colpito a morte, addetto alla mitragliatrice. Combatté valorosamente per dodici ore, coprendo le spalle ai suoi commilitoni nella ritirata verso le trincee, ma non riuscì a salva­re se stesso. E’ sepolto nel ci­mitero di guerra di Xau Ma­tanovica e gli sono state con­ferite Croci al merito di guerra. lannella Andrea apparteneva all’8lesimo reggimento fante­ria, combatté sul fronte russo e morì il 5/6/45. Anche Limongiello Luigi si trovava sul fronte russo e apparteneva allo stesso reggimento, ma risultò disperso. Solo nel 1991 è stato possibile consultare gli Ar­chivi Segreti di Stato di Mosca, dove tristemente risultò che il soldato morì il 25/2/43 nel cam­po di deportazione prigionieri n. 58 Temnikov, nella Repub­blica della Moldovia. Anche La Sala Francesco risultò disper­so, ma a distanza di anni è sta­to accertato che è deceduto il 6/1/44. Apparteneva al 42simo reggimento fanteria e combatté sul fronte tedesco. Mastrodomenico Nicola faceva par­te dell’11esimo battaglione mortai e morì combattendo sul fronte tedesco il 5/9/44. Mastrodomenico Vincenzo, in­vece, appartenente al l3simo reggimento fanteria, morì il 28/2/44, combattendo duramente sul fronte greco. Pierro Francesco fu arruolato come Ca­porale nel corpo Geniero tele­grafista e partì nel Maggio ‘41 dall’Italia su un traghetto, de­stinato a rifornire di truppe e materiali gli eserciti italiani im­pegnati in Libia. Il suo traghet­to, il “Conte Rosso”, il 21/5/41 alle ore 23 fu colpito da parec­chi siluri lanciati da un sommer­gibile nemico, nelle acque di Siracusa. L’attacco causò 2340 vittime e il corpo del nostro con­cittadino non fu mai ritrovato. Restaino Emilio cadde in guerra nel Montenegro, men­tre Tamburelli Rocco era un partigiano appartenente al Re­parto Formazioni Partigiane. Perì in Grecia il 12/10/43. Tobia Luigi faceva parte della 193esima batteria artiglieria. Cadde sul fronte del Mediterraneo, a Malta, l’11/2/44. Vallario Donato, invece, è stato insignito della Croce al merito di guerra, perché è uno dei famosi “eroi di Cefalonia”; egli infatti morì in Grecia il 22/9/43.

Altri caduti sono Araneo Andrea, Arman Vito, Di Biasi Giuseppe, Giorgio Salvatore, lannuzzelli Donato, Mauriello Antonio, Perugia Calisto Carlo, Preziosi Mario Alfonso, Pucillo Vincenzo, Russo­niello Giovanni e Tarullo Giuseppe. Sono i nostri eroi!!!

Altri invece risultarono di­spersi, come Malanga Antonio in Albania, Bellino Rocco, Donatiello Michele e Mauriello Giuseppe. Quest’ultimo era un aviatore e si trovava in Francia quando non diede più notizie di sé.

Quelli che per fortuna tor­narono, possono raccontarci meglio le loro esperienze. Gior­gio Leonardo ricorda di essere stato in attesa per quindici gior­ni prima di partire per la Sar­degna. “Lì è stato il periodo più brutto, perché stavamo digiu­ni, una volta al giorno riceve­vamo un po’ di rancio, acqua, pane crudo […] Eravamo spor­chi, non c’era acqua, ci dava­no un litro di acqua al giorno e ci doveva bastare per lavarci, per la barba. Dormivamo su letti a castello di legno.” In se­guito fu spedito a combattere al fronte di Cassino: “Tutte le notti all’una in linea, eravamo nelle tende, sulle brande, nevi­cava e pioveva, si doveva es­sere in linea per portare le mu­nizioni agli americani, altrimenti non potevano avanzare. con il rischio di essere colpiti da una granata... Portavamo le siga­rette al fronte. Alla fine, pren­devamo i morti e li caricavamo sui muli, tre per mulo, perché non c’era Croce Rossa: gam­be, braccia”, un orrore. In com­penso “si mangiava un po’ me­glio: cioccolata, pranzi secchi, scatolette di minestrone... Ran­cio non se ne poteva fare!”. L’Italia era un mondo morto: “non c’erano mezzi di comuni­cazione, a Sant’Andrea c’era miseria, continuamente arrivavano notizie alle famiglie di mariti e figli morti…”. Anche Andrea Cignarella ha raccontato ai suoi cari della devastazione dell’Italia dopo la guerra. Egli si trovava a Trieste e, dopo l’8 settembre, che portò caos e disgregamento totale, cercò di fuggire e raggiungere Sant’Andrea: ‘con l’ultimo treno per il sud arrivò nei pressi di Bolo­gna, dove però la linea ferro­viaria era interrotta per i bom­bardamenti. Con un mezzo pubblico raggiunse Bologna, dove però una pattuglia di tedeschi, con i mitra spianati, or­dinò a tutti di scendere. Si for­mò un gruppo di giovani desti­nato ad arricchire i mattatoi dei campi di concentramento na­zisti. Riuscì a fuggire, nono­stante le motociclette lanciate all’inseguimento e il fischio del­le pallottole. Un portone si aprì. Fu salvo. Con mezzi di fortuna percorse l’Italia e dormì dove poteva. A Cassino dormì nella buca scavata dallo scoppio di una bomba. I contadini diede­ro prova di generosa solidarie­tà, dividendo con i fuggiaschi il poco cibo a disposizione. Tra pericoli e disagi raggiunse Avellino, deserta e semidistrutta.”. C’è però chi è stato fatto prigioniero. È il caso di Francesco Cignarella e suo ni­pote omonimo, che furono pri­gionieri nel campo di concen­tramento di Mauthausen, e di Perriello Pompeo, che fu destinato sul fronte russo, nei pressi di Borsa, sul confine rumeno-ungherese. Dalla testimonianza della figlia, sappiamo che “l’atmosfera tra i soldati era festosa, specie quando Hitler e Mussolini passarono in rivista le colonne di militari.”. La compagnia raggiunse la linea di combattimento a piedi e, dopo la battaglia sul fiume Dnepr e la ritirata dei russi, avanzò fino a Stalino-Gor­lovvka. “L’obiettivo della nuo­va battaglia era prendere la postazione russa lungo la linea ferroviaria. Venne preso prigio­niero dai russi durante que­st’azione di controllo ed esplo­razione che gli era stata affida­ta (13/12/41). Subì vari inter­rogatori. I russi erano convinti che fosse un ufficiale, non sol­dato semplice, e volevano ave­re informazioni sull’organizza­zione dei reparti dell’esercito italiano. In treno, tra freddo, fame, pidocchi e sete, raggiun­se il campo di concentramento n. 76, nel Kazakistan. Il vitto ero scarsissimo: pane nero e un aringa secca, che procurava sete. L’acqua veniva fornita ogni tanto. Successivamente fu trasferito nel Campo n. 99, sempre nel Kazakistan. Duran­te il viaggio nel vagone cel­lulare, durato 19 giorni, non si faceva altro che parlare di cibo. I prigionieri furono tenuti per venti giorni in quarantena, chiu­si in una stanza. Si dormiva su tavole di legno. Il nuovo vit­to era di 400 g di pane di sega­le, poi portati a 600 g, e due zuppe al giorno. Veniva distri­buito da uno slovacco, che fa­voriva i suoi connazionali. In più c’erano 40 g di tabacco al giorno. Ovviamente si doveva lavorare per la manutenzione del campo. L’inverno era un in­cubo: fame, ma soprattutto freddo. I prigionieri barattavano le cose che avevano, a vol­te anche piccoli oggetti fabbri­cati da loro stessi. Dopo fu messo in un ospedale cattoli­co, il lazzaretto, a causa del suo ginocchio lacerato. Lì il trattamento e il vitto erano poco migliori; nel campo, uscito dal­l’ospedale, scelse di fare il cal­zolaio. I commissari riunivano sempre più spesso i prigionie­ri, per informarli dell’andamen­to della guerra, con le notizie della caduta di Mussolini, del governo Badoglio e dell’Armi­stizio. La notizia del capo­volgimento delle sorti della guerra in favore dei russi fu accolta con scetticismo, si pen­sava fosse soltanto propagan­da. La guerra finì. Ma bisogna­va attendere per rientrare.”. Tornò in Italia nel 1945, rice­vendo successivamente una Croce al valor militare. Anche lannella Alessandro è stato pri­gioniero dei tedeschi. “Erava­mo come sardine, più di cento nei vagoni dei treni che ci por­tavano in Germania. Dopo es­sere stato presente ad un bom­bardamento che sembrava non finire più, fui ferito al braccio si­nistro e portato all’ospedale. Il 13/4/45 gli americani ci libera­rono. Stetti tre mesi, così arri­vò anche per me il momento di tornare a casa.

Si ringraziano vivamente tutti coloro i quali hanno colla­borato con le loro testimonian­ze e la loro disponibilità, e che hanno reso possibile la realiz­zazione di questo dossier, met­tendo a disposizione il loro ma­teriale e scavando nei ricordi dolorosi, al fine di ricostruire al meglio gli eventi a cui il nostro popolo è stato partecipe, con i sentimenti e i valori che li han­no accompagnati. Nel riporta­re i momenti tragici dei bom­bardamenti sul nostro paese, ma soprattutto nella ricostru­zione dei fatti avvenuti lontano, in terre inospitali, ovviamente ci sono state molte difficoltà, perciò non deve costituire motivo di rammarico se si è omes­so, non intenzionalmente, qual­che nome o qualche particolare.

Mariella CIGNARELLA
Pietro QUAGLIETTA


Riteniamo utile riassumere nella seguente tabella i nominativi delle vittime dei bombardamenti aerei del settembre 1943(3)

N Persona Paternità Anni Note
1 Cerasale Grazia di Salvatore 18  
2 Cicenia Maria Giuseppa fu Nicola    
3 Cignarella Angiolina fu Salvatore Emidio 11  
4 Cignarella Donatina di Pasquale 12  
5 Cignarella Salvatore Emidio fu Giuseppe 40  
6 D’Angola Michelangelo di Luigi 30  
7 D’Angola Vincenzo Gerardo fu Emidio 47  
8 Giorgio Erminia fu Salvatore 44 I figli furono estratti vivi
9 Giorgio Francesco fu Pasquale 78  
10 Giorgio Grazia fu Luigi 51 Sorella dei due seguenti
11 Giorgio Michele fu Luigi 34  
12 Giorgio Vincenzo fu Luigi 79 Sacerdote
13 Gottardi Maria Gerarda di Ermenegildo 28  
14 Iarussi Giuseppe di Antonio 18 Figlio di Elvira Mauriello, ferito morì al Seminario
15 Iarussi Michele fu Pasquale 72  
16 larussi Vittorio di Salvatore 8 Nipote di Michele
17 Malanga Michele fu Pasquale 70  
18 Mauriello Elvira di Matteo 47  
19 Mauriello Maria Donata di Matteo 42 Moglie di Piccininno Michele e madre dei 4 seguenti
20 Piccininno Andrea di Michele 16  
21 Piccininno Antonietta di Michele 5  
22 Piccininno Gina di Michele 3  
23 Piccininno Matteo di Michele 11  
24 Russoniello Maria Antonia di Pietro 10  
25 Savone Elisabetta fu Vito 71  
26 Schettino Maria Donata di Antonio 15  
27 Sossi Frida di Andrea 33  

(1) Crollarono anche altre case adiacenti ed almeno una fu ricostruita solo negli anni '60 [N. d. T.].

(2) Si racconta anche che per timore delle mine evitarono di attraversare un ponte che si trovava nei pressi di Pescopagano ma incapparono su una mina posta proprio sulla deviazione. Pare che fossero accompagnati anche da un soldato che trovò con loro la morte [N. d. T.].

(3) Elenco tratto dalla lapide posta in Piazza dei Martiri circa 10 anni dopo gli avvenimenti [N. d. T.].


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(Rosario Cignarella)
Prima pubblicazione: 19 febbraio 1999

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