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Riportiamo qui, per intero, il bellissimo racconto pubblicato parzialmente poco più di un mese fa.

La forza del cuore

Il mattino mi destava costantemente con le labbra secche. L’aria irrompeva con fatica, soppressa dal macigno della calura estiva. In silenzio anche gli alberi sembravano soffrire quella strana calma. L’aria torrida e il sole rovente, già ai primi albori, rendevano più ...

La statua dell'Immacolata Concezione

... faticoso il risveglio. Il cielo completamente schiuso e l’immagine rappresa e immobile delle case facevano somigliare S. Andrea ad un vago dipinto di Van Gogh, stranamente inerte.

Correva l’anno 1957: i sopraggiunti quindici anni si sposavano bene col mio corpo. Ero abbastanza esile, ma con le opportune forme. Il viso giocondo - dai delicati tratti - e il nobile portamento incontravano spesso il favore e la simpatia altrui. Nel mio paesino la stagione estiva raggiungeva uno dei suoi picchi. Agosto aveva già gravato sui più anziani; quasi ogni giorno infatti, nelle ore di punta, essi avvolgevano un umido panno alla testa a mo’ di protezione.

Quella mattina la cerimonia della festa patronale si teneva nella Chiesa Madre, a Largo Solimene. Nonostante fosse poco distante da casa, mi ero vestita in fretta, impaziente, con il cuore in trepidante attesa. La notte prima non avevo chiuso occhio. Un solo pensiero mi teneva sveglia, gareggiando persino con il sonno e con la sete.

Ero consapevole del fatto che, ogniqualvolta fremevo per qualcosa, un lungo sorriso mi si scolpiva in volto. Perciò, temendo che le emozioni rivelassero gli intenti, sorpassai la porta della chiesa senza guardarmi intorno, procedendo verso i primi posti, con il solito aspetto energico, risoluto. Le pareti della chiesa a stento offrivano un riparo dall’arsura. Non avevo idea di quale giorno fosse, e lì per lì credo sia stato l’ultimo dei miei crucci.

La statua della Madonna aveva uno sguardo vacuo, eppure ebbi il sospetto che per tutta la durata della messa mi avesse scrutato fin nel profondo. O, forse, sono stati proprio gli occhi miei, colmi di desiderio, a non aver mai mutato direzione. Appena terminata la funzione, senza indugio, mi incammino verso il tavolino poco distante, afferrando le sbarre che la sorreggevano. La gioia non aveva fatto in tempo a raggiungere il petto, che una voce perentoria mi costrinse di colpo a mollare la presa.

Lu mezzette (da: http://www.gioiadelcolle.info/)

« Lo sai che si paga? » Mi voltai di colpo, quasi colpevole del mio gesto. Era Ciccillo [Sepe, N. d. R.], il responsabile del Comitato per l’organizzazione delle feste. Il suo sguardo mi sfidava.

« E quanto? » risposi quasi con provocazione.

« Un mezzetto di grano. »

[L’unità di misura del “mezzetto” corrisponde a circa 24 kg di grano. Negli anni ’50 era uno dei più costosi beni primari e fonte di sostentamento per la maggior parte delle famiglie non facoltose].

« Va bene. » Avevo accettato la sfida senza remora alcuna, con spiccata innocenza e tipico vigore di una fanciulla ancora in tenera età, desiderosa di dar prova di sé.

Ero consapevole di non possedere tale ammontare. Tuttavia, l’ardore che da tempo mi consumava, misto alla gelosia e all’orgoglio, non aveva certo rivali o possibilità di reclusione. Portare la Madonna in spalla rappresentava un vero e proprio onore, riservato alle giovani vergini la cui famiglia disponesse di buone risorse finanziarie. Io non provenivo da posizioni agiate; non riscontravo però alcuna differenza fra me e coloro che avevano la camicetta ben stirata al mattino o le calze pulite ogni sera. Ragion per cui non mi ritrassi dal mio intento, nemmeno quando Ciccillo tornò poco dopo avvisandomi che la somma dovuta aveva subito un’alterazione: dovevo aggiungere un quarto di grano in più.

Non scossi la testa. Bastò un cenno per confermargli le mie ferree intenzioni. Nulla più mi ostacolava dal mio obiettivo.

In otto ragazze sorreggevamo la statua. Mentre il cuore pulsava ad un ritmo indefinito, il sudore era quasi sparito dal volto, lasciando il posto ad un leggero sorriso.

Non ricordo bene quanto tempo impiegammo per raggiungere casa. Non facevamo il giro completo del paese, ma di certo tre buoni quarti d’ora erano passati. C’è una strana percezione del tempo quando il corpo è invaso da un senso massimo di gioia. Le emozioni scolpite in età adolescenziale rimangono sempre un pressante solco di illimitata purezza, di assoluta semplicità, seppur vissute fugacemente, senza particolare energia. Per questo la mia mente aveva contato solo pochi minuti. Il sole sarebbe potuto sorgere e tramontare senza che alcuna fibra del mio corpo ne percepisse la variazione.

Avevamo appena superato l’angolo quando scorsi mia madre tra le signore affacciate sullo stipite delle porte. Per un attimo i nostri occhi si incrociarono. Il suo volto ammiccò lievemente, senza però lasciare spazio all’interpretazione. Da lì a poco mi avrebbe duramente malmenato: quello sguardo, comunque, non sembrava tangermi minimamente. Continuai a camminare, imperterrita, a testa alta, sporgendo il capo qua e là, noncurante degli sprazzi d’orgoglio che sembravano irraggiarmi tutta, dai capelli alle caviglie, dalle braccia alle scarpe, di colpo non più consumate, ma confortevoli, morbide e fresche.

Giunsi a casa appena i raggi solari avevano intensificato gli sforzi. Era orario di pranzo, per cui evitare il ritorno non sarebbe stata una saggia idea. Varcai la porta con la speranza di non trovare mia madre in casa, almeno fino a quando non mi fossi riempita lo stomaco. Non so se furono più veloci gli occhi a percepire la sua presenza o la paura stessa. Era di fronte a me con in mano il tubicino blu della bombola del gas. La presa forte e decisa dava l’impressione di avere dinanzi una donna ruvida e autoritaria, sopprimendo del tutto i suoi soliti lineamenti minuti, delicati. Mi paralizzai, ma fu giusto un attimo prima di sentire il suono del tubo roteare verso la mia spalla.

Aveva incominciato a picchiarmi con veemenza. Nel mentre, non riuscivo a distinguere ciò che provava a dirmi. Compresi giusto alcune parole: “E adesso come fai, con cosa paghi?”.

« Non devo pagare nulla, mamma » tentai di risponderle con voce debole.

Si ritrasse prontamente, scrutandomi in volto alla ricerca di un apparente indice di menzogna.

« Poi vediamo se non devi pagare niente! » Dallo sguardo trapelava più un atteggiamento di minaccia che di sfida.

Per ora l’avevo scampata. Osservavo mia madre allontanarsi, mentre la paura lentamente si confondeva con la gioia assaporata pochi istanti prima.

I giorni trascorsero velocemente. L’imponente figura di Ciccillo fece capolino dopo tre giorni circa, presentandosi a casa di persona. Lo intercettai prima che riuscisse a varcare l’uscio, facendogli segno di seguirmi. Gli dissi di aspettarmi lì, poco distante dalla mia abitazione: alcuni minuti e avrei consegnato il dovuto. Sapevo bene di non poter attingere dal granaio di mia madre. Era pieno, poiché ancora non avevano portato il grano a macinare. La sua costante precisione e l’occhio indagatore mi avrebbero scoperta in un battibaleno. Sbuffai. Forse, in attesa che si svuotasse, avrei potuto chiedere la somma in prestito a Zi’ Michelina, la madre di una mia amica.

Non impiegai molto. Fui di ritorno una decina di minuti dopo. Avevo promesso a Zi’ Michelina di restituirle quanto prima il debito. Era stata molto comprensiva e gentile, come sempre, del resto.

Ciccillo accolse il mio ritorno con un emblematico sorriso. Chissà, forse non aveva creduto del tutto alla mia buona fede o era insicuro della reale possibilità di risarcimento. Ricambiai con uno sguardo affermativo. Erano questi i momenti in cui gustavo la rivincita su chi tendeva a sottovalutare i più bisognosi, solo perché appartenenti ad un ceto sociale più elevato o inquadrato in una posizione di potere. Lo osservai allontanarsi, mentre si tingevano le case attigue di un intenso rosso porpora, pacificatorio.

Era da poco terminato agosto quando finalmente macinai il grano, con l’aiuto di mia madre. Il granaio iniziò presto a svuotarsi, per cui pensai di avere campo libero per la restituzione. In un certo senso mi sentivo una ladruncola colpevole di misfatto. Repressi con forza quella visione, mentre riempivo in fretta il sacco. Il nostro granaio aveva una portata di circa 10 quintali. Con un po’ di fortuna avrei evitato che si notasse la mancanza dei 30 kg che misi in serbo per Zi’ Michelina. Avevo fretta, perciò mi diressi senza indugio verso la sua abitazione. Mi accolse con un bacio appena consegnai il sacco colmo di grano. La precipitosa corsa e il consistente peso del carico lasciarono colare il sudore giù dal viso per alcuni minuti; salutai con slancio, mossa da un impeto di affetto e feci ritorno a casa. Potevo rasserenarmi ora. Era tutto concluso.

Mi sbagliavo grandemente, purtroppo. Trascorsi due giorni, un urlo concitato mi desta di soprassalto dai miei intenti. Stavo riordinando la cucina, per cui sobbalzai quasi di soprassalto. Il pensiero non fece in tempo a formularsi che mia madre, giunta all’improvviso, mi lancia un manrovescio sullo zigomo sinistro. Non riuscii a produrre il minimo cenno. Allo schiaffo seguirono numerosi altri e altri ancora. Smise dopo alcuni minuti, a me parsi decenni.

« Come mai? Non dicevi di non dover pagare nulla? » La sua voce ruvida, colma di rabbia, mi graffiava forte il petto. Esigeva una risposta, ed io ero consapevole di non avere alcuna possibilità di accontentarla.

« Mamma, ti ho rubato il grano, ho sopportato le mazzate, ma sono soddisfatta di aver portato la Madonna. » Optai per la verità. Niente procura più dolore e nulla infonde più rispetto della verità.

Non doleva il cuore. Una strana e insolita sensazione di coraggio permeava tutto il corpo.

Mia madre non si mosse. Ne approfittai per sgattaiolare via. Mi gettai nel venticciolo fresco della sera, rimanendo per qualche istante sui gradini del confinante porticato. Mi incamminai poi verso il seminario. I passi non più gravosi si alternavano al convulso andirivieni della corrente. Mi adagiai ai piedi di un arbusto poco distante.

Sant’Andrea si scorgeva in tutta la sua fierezza, ora più radiante del solito. Amavo il mio paese, ogni muro franto, i ristretti vicoli pregni di speranza, l’aria docile e accogliente, le foglie più increspate che osservavo levarsi senza alcuna riluttanza.

Com’è singolare il cuore, pensavo. Possiede maggiore intelletto del cervello ed emana una spaventevole forza. E quanto è fiero!

Assaporai qualche folata ancora, mentre si dissolveva lo sguardo sul tratto più azzurro e limpido del cielo.

Gerardina Vallario (moglie di "Poeta")
(a cura di Davide Cuorvo)